venerdì 19 dicembre 2014

LUIGI MARRONE SU RALPH BAER TRATTO DA ARCHEOLOGIA INFORMATICA

lunedì 15 dicembre 2014

LUIGI MARRONE in 3DREALMS TRATTO DA ARCHEOLOGIA VIDEOLUDICA 5X2

giovedì 4 settembre 2014

Lo sparare nei videogames: metafora di cosa?

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

        Del 22-01-2008
    Un momento epifanico
    Sparare é un atto violento. Un atto che presume un'offesa, dalla quale raramente si esce incolumi. Ma più che dell'atto morale in sé, videoludico o meno che sia, lo "sparare" cosa significa? Qual'é il suo ruolo psicologico? La sua funzione per il videogiocatore é forse indice, metafora che esprime qualcos'altro?
    Nelle programmazioni di un cinema multisala è raro non vedere in tabellone almeno una locandina di un action movie con un tizio che impugna un'arma.
    In uno scaffale zeppo di videogiochi poi tale eventualità è obiettivamente impossibile.
    Sin dai propri albori il videogioco ha proposto la rappresentazione simulata di meccanismi di difesa e offesa: sparare per frantumare meteoriti, sparare per respingere alieni, sparare per difendere postazioni terrestri, sparare per colpire evitando al contempo di essere colpiti: l’interazione è elementare, il meccanismo nitido, semplice e perfetto: puntare l’arma/premere un bottone e Sparare.
    Le cover-art di videogames con personaggi che brandiscono pistole/fucili/mitra/cannoni sono da sempre una realtà imprescindibile del marketing videoludico. Gettando una veloce occhiata alla mia ludoteca e soffermandomi sulla prima di copertina scorgo Chris Redfield del primo Resident Evil il quale non ha una pistola, bensì un cannone fra le braccia. Lara Croft ne ha invece 2 di pistole, e armati e pronti a fare fuoco si presentano personaggi quali Solid Snake, Turrican, Sam Fisher, Leon Kennedy e le posture sensuali (ma sempre armate) di Ada Wong, e ancora Master Chief, Marcus Fenix, Dante, Samus Aran e chissà quante altre centinaia di personaggi fra quelli che in futuro verranno.
    Brandire un'arma.
    Puntarla per difendersi da qualcosa o qualcuno.
    Film e videogames, caratterizzati da una forte evidenza pubblicitaria e dalla relativa informazione visuale quanto più possibile incisiva (imposta da un marketing ad hoc) quasi sempre presumono un’esperienza caratterizzata da un annichilimento delle possibilità pacifiste e patteggiatrici a favore di una posizione risolutiva dal carattere militare:
    eliminare la minaccia con un'arma.
    Sparare.

    Ma questa minaccia, in realtà, dov'è dislocata? Da cosa nasce? Qual è la sua reale natura?
    Ovunque sulla Rete è possibile imbattersi in un vero e proprio assediamento pubblicitario di videogames caratterizzati da nichilismo e potenza, i quali a loro volta generano gigantografie cartonate nei game-center, fra web screenshots e video-trailer di videogames, a loro volta generati e non creati dai trailer degli action-movies nei cinema, fra velocissime sequenze di montaggio col ruggito di pistole e appartamenti che esplodono... CUT... Resident Evil 5... occhi determinati di Chris Redfield... pistole che fanno fuoco... sparare... fare fuoco con un'arma.... ricaricare... sparare... sparare...
    Sparare.
    E’ una guerra mediatica fatta di bellicosità videoludica e cinematografica, non c’è che dire.

    Ma é stato solo alcuni giorni fa, durante un barbaglio d'improvvisa lucidità che mi è parso di poter intuire, di poter afferrare, di poter comprendere il senso e l’essenza di tutto questo. Non é facile descrivere il momento in quanto si è trattato di una improvvisa sensazione più che di una ragionata riflessione, ma dentro quell'attimo d'epifanica comprensione ho sentito come se tutto questo sparare, tutta questa possibilità di far fuoco ammantata da una cosmesi sempre più realistica si riducesse in fondo ad una scossa palliativa, ad un brivido, ad una ludica virtuosità buona a regalare ai gamers l'illusione svagante di vivere esperienze emotivamente elettrizzanti in grado di remare contro una realtà individuale altrimenti scarna di forti bussole, bensì allagata di routine e di noia, manchevole di edificanti obbiettivi e deficitaria di un senso esistenziale sentito con forza.
    In quel momento, da pessimo player devo dire, è stato forte il chiedermi se la maggior parte dello "sparare" nei videogiochi con tutto il suo trascinarsi di pose e armi impugnate dai protagonisti ben esposti in copertina, non fosse altro che una metafora della
    semplice
    mera
    difesa
    dai nostri timori del vivere.
    Oltre che per contestualizzare un ambito di agenza videoludica quindi, mi sono chiesto se l'intrattenimento digitale pervaso dalla maggior parte dei personaggi che puntano armi e dal grilletto facile non fosse altro che una metafora di quell'ampio dramma esistenziale che caratterizza l'uomo in generale all’interno di una profonda mancanza di forti - obbiettivi - esistenziali.
    Il videogioco come valvola di sfogo si sente spesso dire, ma sfogo da cosa in realtà? Forse dall'abrasiva austerità del vivere fatta per buona ed evidente parte di insincerità, di rapporti di lavoro basati sul potere, di malafede e di cronache nefaste causate da illogiche pazzie? Quel vivere fatto di competizione, di arrivismi e invidie alimentate dalle disparità non-democratiche inoculate nella società grazie ad occulte ma operative oligarchie?
    Sparare come azione/sublimazione del malessere (dis)umano del nostro vivere?
    Sparare come metaforica affermazione biologica del proprio essere maschile, del rilasciare il proprio seme/proiettile verso il buio-domani, verso l'uterino buio, il non-luogo al quale si tende e dal quale si proviene?
    O magari semplicemente sparare come esorcizzazione di un vivere che fa semplicemente paura, per la paura stessa insita nel vivere?
    E ancora, sparare come reazione al timoroso disagio generato dai fantasmi del proprio futuro individuale?
    E’ proprio adesso, nel momento in cui scrivo che mi pare di ricordare. E’ un processo che è iniziato col bombardamento d’immagini mediatiche fatto di main characters stilosi e armati, passando per i trailer dei prossimi FPS e terminando con i goffi filmati degli assolutamente non credibili attori del primo Resident Evil (The Game - PsOne): il pensiero che in quel preciso momento devo aver formulato é stato "sparare quale metafora del timore di guardare in faccia il proprio incerto domani, sublimato mediante il lampo di un'arma da fuoco atto a rischiarare, per pochi brevi istanti, le incertezze della propria strada individuale che ognuno ha da percorrere, ineluttabilmente".
    Si, era questo che devo aver pensato osservando la postura plastica di Jill Valentine in posizione di tiro: spianarsi la strada con un’arma puntata verso la zona buia dell'essere, come fanno i Solid Snake, i Dante e i Leon Kennedy... puntare l'arma a scanso di ogni fallimento/contaminazione dell'anima e della carne... uno zombie che sbuca improvviso... un fantasma... un disagio interiore che avviluppa e infastidisce, e che a tutti i costi si vorrebbe eliminare.
    Uno sparare che (nel cinema e) nei videogames regali quindi la parvenza di un illusorio, digitale scopo caratterizzato da un momentaneo forte senso esistenziale, semplicemente giocando. Sparare quale metafora quindi dell'incapacità di affrontare l'esistenziale incedere se non con un'arma puntata dinanzi a noi (possibilmente torcia-munita) che ne esorcizzi i timori, le sfiducie e l'umana debolezza di fondo.

    Sparare.
    E quando questi fantasmi diventano insopportabili, come le più buie paure e debolezze di Solid Snake, puntare infine l'arma verso se stessi.
    Metaforicamente, s'intende.
    E cosi via dunque, ancora e ancora, sino al prossimo videogioco, sino al prossimo video-trailer, sino al prossimo E3, al prossimo Tokyo Game Show, alla prossima recensione e al prossimo bio-shock: ovunque vi sia da puntare un'arma, noi ci saremo.
    Ovunque vi sia da sparare.

    A questo punto è lecito chiedersi: ma davvero il character design di quel Marcus Fenix, cosi maschio, potente e torreggiante sopra tutti noi, è parte di una funzione in risposta alle nostre paure?
    E Leon Kennedy? Chris Redfield? Solid Snake? Lara Croft? E tutti gli altri che li seguiranno?
    Si tratta soltanto di icone, di simboli digitali, di modelli d'intrattenimento atti ad una prassi di sublimazione?
    E il nostro giocare, il nostro difenderci dalle minacce e l’uccidere attraverso loro, è davvero solo un'inconscia difesa dai timori, dalle difficoltà del vivere e dall'incertezza del nostro domani?

    So soltanto che per un breve, epifanico e introverso momento mi é lucidamente parso così.

    Luigi "BraunLuis" Marrone





Virtuale e memoria: i videogiochi sono tempo perso?

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

Del 22-01-2008

Videogiocare come Non-Essere: é davvero così?

Essere o giocare: questo è il problema.
Un interrogativo su cui riflettere, non prima però d’aver tentato di trovare una definizione ad hoc.

Video interazione ludica o videogiocare: pratica di interazione tecno-sensoriale con universi disincarnati (Esperienze Virtuali) capace di sublimare l’inconscio bisogno metafisico di proiettare l’Essere/Avatar/Divinità (qualificato come video-giocatore) all’interno di realtà espanse, tese a permettere esperienze di vita che preservano l’incolumità fisica del soggetto.
Stando ad una tale definizione viene da chiedersi: I videogiochi sono dunque solo pseudo simulazioni del reale che accondiscendono a varie funzioni psicologiche/sociali (intrattenimento, riflessione, catarsi)?

I videogiochi permettono rappresentazioni di interazioni quasi sempre non possibili sul piano materiale, ma prendono imperfettamente a modello il piano reale per simularne certe regole, stravolgendole.

Domanda: Gli accadimenti che avvengono nei videogiochi, dove accadono realmente?

Risposta: I videogiochi non accadono sul piano fisico/materiale della realtà tangibile.
Essendo composti di carne digitale, di realtà disincarnata (disembodied reality), i Videogiochi accadono nella mente, nel Ghost umano: i Videogames sono esperienze dello spirito.

Mente/Spirito sono quindi gli spazi da indagare, vale a dire i “luoghi” di accumulazione di tutti i residuati post-esperienziali dell’uomo, quindi, anche delle sessioni di gioco.

Domanda: Qual'é la valenza di ciò che resta di un videogioco alla fine dell'esperienza?

La memoria umana determinatasi successivamente alla pratica di universi videogiocati é sacrosanta come quella determinatasi per le esperienze di vita out-game, le quali esperienze vengono comunemente incensate come le uniche a detenere l'ontos necessario a costituire un memoriale d'uomo che si rispetti.

E’ sorprendente infatti quanto possa essere diffusa l’opinione che il tempo trascorso a video-giocare equivalga a puro tempo sprecato. Tale generica convinzione nasce da riflessioni piuttosto comprensibili, in quanto gli accadimenti che si verificano in un videogioco, manifestandosi sul piano meramente virtuale/digitale/immateriale, dovrebbero non costituire una realtà “fisica”, “concreta” e “reale” appunto.
A detta di molti quindi le esperienze videoludiche non possiedono quindi la legittimità di contribuire a formare la memoria di un uomo.
Detto in altri termini è accezione comune sostenere che il vivere Esperienze VideoInterattive equivale a Non-Vivere: i videogiochi annichiliscono il videogiocatore nell’indeterminato, e il tempo trascorso a video-giocare non rende un uomo tale nel senso più puro del termine, bensì una entità inutile, sospesa fra il vivere passivamente il mondo “fisico” e l’annullarsi attivamente all’interno di un Altrove immateriale.
Videogiocare uguale quindi sparire in un mondo dove non si Esiste: una prospettiva piuttosto agghiacciante.
Per musica/cinema/letteratura il discorso si fa drammaticamente diverso: i Videogiochi ne contemplano svariati aspetti, a volte sincronicamente e aggiungendo di proprio l'interattività, eppure tale elemento non basta a scrollare dall'opinione comune l'idea che i Videogiochi rappresentino un vuoto nell’assenza di edificazione.
Eppure i video-interattori sanno bene che le esperienze di gioco che più vengono ricordate, impresse, sedimentate nella propria memoria sono proprio quelle che hanno “più anima” o “più carattere” intesi come risultante di tecnica, fantasia, ideali, volontà e perché no, cuore di un team di lavoro ch ha riversato in codice il proprio operato attraverso le risorse tecnologiche disponibili nel tempo.
L’importanza artistica di un videogioco risulta quindi la somma e il prodotto finale di tutto ciò che, a livello di codice, è in grado emozionare, indurre a riflettere e a stimolare un dato videogiocatore.
Il dna genetico/digitale di una video-iterazione si fa dunque specchio della sensibilità artistica, della capacità tecnica e delle visioni dei game designers.
In altri termini, della Essenza artistica di un team di lavoro.

Ma questa Essenza infine, non proviene forse dall’uomo?
E in che modo questa Essenza interessa il discorso della memoria?

Io credo che la interessi in ogni sua parte.
Immaginando che la fine di una esperienza videoludica (rimettere il software nella custodia senza riaprirla più) e la fine della vita di un uomo (chiuderlo dopo i dovuti riti in una bara per sempre) siano metafora della medesima azione, credo sia possibile giungere a formulare la seguente conclusione: così come il ricordo che si serba di una persona non corrisponde solo ed esclusivamente al suo aspetto fisico in life bensì annovera in sé quegli elementi affettivi che lo trascendono e che tornano a galla nel tempo facendo di quella persona una entità unica, inimitabile, non più materiale eppur vivida, palpitante e (in qualche metafisico modo) spiritualmente presente, lo stesso può dirsi di una coinvolgente esperienza videoludica che viene registrata nella memoria di un videogiocatore.

Emozionarsi nel ricordare l’immersione nella Shadow Moses di Metal Gear Solid (Playstation, 1999 - Konami) ed emozionarsi ad esempio nel ricordare l’amicizia con un caro conoscente che non esiste più fisicamente, informano della medesima cosa: essenza, anima e spirito in entrambi i casi palpitano in colui che ricorda in quanto depositario di tali esperienze.
Ciò che forse è ancora difficile da accettare è che l’immateriale (i mondi virtuali, nella fattispecie) ha la stessa legittimità del fisicamente tangibile, e che i 2 piani sono facce della medesima medaglia in continua connessione.
Non esistono differenze ontologiche fra memorie video-ludiche e memorie non video-ludiche: si tratta pur sempre di memorie umane, sia che gli uomini videogiochino o meno. Da ciò ne deriva che il tempo dedicato a “video-giocare” non può, nemmeno concettualmente, essere considerato e vanificato come “perdita di tempo”, se non in modo spregiativo (e sempre contestualmente ad una determinata opera) per la qualità delle esperienze videoludiche vissute (leggasi, il tempo trascorso con un pessimo videogioco equivale al tempo trascorso con una persona ottusa, ridondante e che non lascia nulla: a waste of time).

Resta il fatto che la vita fisica che interagisce è una sola, ma le vite virtuali da esperire possono essere tante, molte, troppe a volerle "vivere" tutte.
Ma qualunque sia la qualità dell’esperienza che offrono si tratta di vite non delegittimabili causa la loro fonte originaria e il loro ontos costitutivo (Uomo, game designer/video-giocatore che sia).
I mutamenti del corpo nel tempo sono flebile, lieve testimonianza rispetto a ciò che accade nello spirito: dolore, rabbia, gioia, malinconia… le pieghe delle emozioni galleggiano sulla superficie del corpo, sui volti e sulle umane espressioni emotive lasciando sempre intravedere un infinitesimo barbaglio della complessità delle loro forme interiori.
Ma il vero libro della memoria di un uomo si scrive dentro, e concerne l’anima, non il corpo.
Il corpo indossa i segni del tempo, si veste di convenzioni e condizionamenti sociali, e ricorre ai simboli stilistici dell’abito a sintesi di una presumibile interiorità.
Il corpo è minima cronistoria di un memoriale d’uomo.

Le ore di gioco trascorse in cyberspazi videoludici nonché le esperienze di vita "reale" off-game scrivono e depositano dentro l'uomo gli accadimenti che poi diverranno memoria.
Le Video Esperienze Interattive contribuiscono al testamento interiore umano quanto le esperienze di vita out-game, poiché videogiocare comporta il vivere vite interiori, vite trascese, vite Altre rispetto a quelle "reali": per quanto virtuali si tratta pur sempre di vite, di Tempo di vita, la cui legittimità é la medesima.
Da qui nasce l’imperativo categorico di giocare bene.
E a proposito delle vite quindi, virtuali o meno che siano, di viverle dignitosamente per non sciupare il proprio tempo.

Vivere, Videogiocare… si tratta in fondo della medesima cosa.
Il videogioco é esattamente il contrario del tempo sprecato.


Luigi "Braunluis" Marrone



Metroid Universe: psicosi cosmiche in medium Aran

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

Del 22-01-2008 


Dovrebbe essere un mondo fatto di connessioni questo, di super connessioni all-linked - Web 2.0 e multi-media users in real-time chat messengers.
Un mondo di Liste Amici in multi-player online, XBox Live e WiiConnect24 su PS Network in Home Second Life. L’universo Metroid è invece puro anacronismo d’oggi. Lo si vive disconnessi dal mondo, dagli affetti e dall’analogico tutto, come ad un’ossessione, una corruzione mentale.
I Wii-mote’s users trovano il proprio sogno, dopo quasi un anno, d’utilizzare il Wii come new-technology al servizio dell’intrattenimento ludico: é il miglior matrimonio possibile, una nuova tecnologia interfacciata ad un ambiente sci-fi che offre splendide evoluzioni interattive. Metroid Prime 3 dispiega in tal modo la sua più affascinante energia: nel suggestivo incremento sensoriale offerto dal Wii-Mote+Nunchuk l’esperienza si trasforma in una immersiva ossessione cervello intossicante, una (piacevole) psicosi video ludica. Svelare ogni suo anfratto, ogni suo angolo remoto intriso di suggestioni ambientali visive e sonore – mentre nel gamer un’esplosione rizomatica di contatti sinaptici ricorda location esplorate, scorciatoie e/o possibili percorsi verso direzioni preventivate – fanno di Metroid un’esperienza pionieristica mentale.
Il pensiero del Metroid gamer va infatti ristrutturandosi secondo i dettami organici dei Metroid stessi – brain-suckers che iniettano tossico Phazon nei contatti neurali – e ciò vuol dire che abbandonare l’esperienza anche solo per una settimana equivale a disintossicarsi dall’infuso di siero virtuale, con relativa difficoltà d'approccio ad una eventuale reprise. Allontanare Metroid per mesi comporta irrimediabilmente l’arrugginire della simbiosi ambientale con i suoi spazi virtuali: il rischio e l’eventualità saranno quelli di sentirsi alieni in un mondo alieno. To be Metroid Addicted vuol dire invece giocare isolandosi da tutto il resto, introversione che specchia e riflette esperienza introversa - una temporanea comunità di “non multi-player people” immersa nel Samus-Sé in esplorazione individuale quale prima missione ludica e soggettiva.
Il risultato é il solipsismo videoludico, il versante psicologico è il Samus-transfert.
Metroid diviene in tal modo una (piacevole) ossessione. Lo si ritrova nei sogni, ritornando ai suoi ambienti ancora da esplorare, all’olografia di mappe in wire-frame filled with colors da ruotare-zoomare-scandagliare per il 100% dell’esplorazione… Metroid lo si gioca dentro di sé oltre che fuori di sé, un’opera che fa dell’esperienza soggettiva il cardine su cui ruota attorno il proprio design, il proprio stile, il proprio ambient-sound e il proprio ludo-appeal.
Il pensiero torna al solipsismo del primo Metroid per NES del 1986, anni nei quali l’immergersi in atmosfere povere di dettagli era pratica suggestionata, più che dalla cosmesi grafica, dalla fruizione di film e letteratura sci-fi, con altisonanti nomi di videogames che irretivano l’acquisto previo acquisto di licenze da altri medium. Guidata dalla visione di Gunpei Yokoi e generata da un cosmico vuoto, Samus si sarebbe invece levata via il casco solo alla fine, rivelandosi donna senza mai esser stata nessun'altra cosa, prima di allora.
La metafora di un Metroid-ending è dunque la fine di un viaggio, esperienza soggettiva che vale un’epica d’intrattenimento, solitaria, come da qualche parte, da fonti perse nella memoria, ha scritto l’ormai storico Biagi : “La tua esperienza non serve agli altri: è una moneta che uno solo può spendere”.
Metroid è una moneta che si gioca da soli - da palombari in Phazon Iper-Fase, da Big Daddy Samus Aran in claustrofobia di casco e servomotori della propria suit – Wii-mote e nunchuk quali supporti vitali, alla scoperta di regni entropici.
Si prova solitudine in Metroid, una alienazione tecno-dipendente: l’add-on delle risorse tecnologiche della propria suit, uniche ancore di salvezza nel ritrovarsi vis a vis con Space Pirates da disintegrare nelle viscere di fredde, abbandonate strutture nell’universo, non muta affatto le cose: più si avanza, più in Metroid ci si continua a sentire soli, abbandonati.
Perché la forza di Metroid é giocata tutta nell’organicità di un individualismo che disegna ogni suo ambiente, per quanto ostile, velenoso o muto che sia, atto a stabilire una relazione psicologica intrisa di malinconica rarefazione mischiata a fredde sensazioni di un distopico futuro alieno, sospeso tra l’assenza d’affetto e l’organicità spaziale del cosmo.
Suggestioni che sostentano coordinate interiori auto-sufficienti al coinvolgimento psichico, autonome come i Drone-bot generati su Elysia dagli antenati Chozo.
Metroid è un essere senziente in attesa che venga svelato, vivendolo, il suo segreto game-design, affinché nulla resti tale all’interno di un ideale level design incarnato digitalmente in modo sopraffine grazie allo studio retrò dei Retro Studios.
Metroid va giocato sentendosi palombari in iper-fase, psicotizzati in Samus Aran's helmet – Wii-mote e nunchuk quali supporti vitali interfacciati al Nintendo Universe.
Metroid va rigorosamente giocato senza assumere altro, da soli e sino alla fine.
True Gamers Are Metroid Addicted.

Luigi "Braunluis" Marrone



Il Mercerianesimo di Philip K. Dick e i VG

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

Del 16-02-2008 

Le piattaforme di gioco sono scatole empatiche

“L’umanità ha bisogno di maggiore empatia”.
Titus Corning, Segretario Generale delle Nazioni Unite.
da Blade Runner di Philip K. Dick – P.82 – Fanucci Editore - 1996

Il Mercerianesimo è la traduzione adottata da Riccardo Duranti, traduttore di Do Androids Dreams of Electric sheep? Di Philip K. Dick (Fanucci Editore – 1996) per il termine Mercerism. Duranti spiega che la similitudine morfologica con il termine Cristianesimo ne sottolinea maggiormente il carattere religioso più che politico/ideologico.
Ma cos’è il Mercerianesimo?
Si tratta di una sorta di pratica mistica, attuata mediante l’interfacciamento ad un dispositivo chiamato scatola empatica. Nella San Francisco descritta da Dick, non possedere una scatola empatica nel proprio appartamento, cosi come non possedere un animale di cui prendersi cura, è sinonimo di immoralità e anti-empatia. Tale considerazione è in primis una reazione alla dis-umanizzazione dilagante in una società costretta a respirare aria radioattiva, ad emigrare su Marte condividendo la vita con androidi-amici o restare a morire sulla Terra a causa di alterazioni genetiche.
La scatola empatica é composta da un dispositivo con due maniglie prensili e uno schermo di visualizzazione (semplice Tv a tubo catodico, come specifica Dick): tecnologia barocca quindi, ma non per questo poco funzionale.
Protagonista assoluto è Wilbur Mercer, il personaggio proiettato dalla empathy-box.
Stringendo le maniglie e osservando le immagini sullo schermo, questo grigio e lacero vecchio, una sorta di Gesù Cristo per antonomasia, inizia la sua performance con una scalata dal regno della Tomba nel quale si trova, composto di ossa e polvere, verso gli irti pendii di un monte che, secondo le aspirazioni dei “connessi”, trasformerebbe l’esperienza della fatica di salire in estasi mistica, sublimazione del proprio potenziale ascetico ed infine realizzazione individuale e collettiva.
ANALOGIA - Le similitudini con le dinamiche fruitive dei mondi ludici digitali è lampante: si continua ad osservare Mercer sullo schermo (un personaggio di un VG da noi non controllato) sino alla immedesimazione che inghiotte i contorni del nostro reale. I particolari dei nostri appartamenti sfumano, l’immagine audio-video risucchia l’utente e la televisione assorbe a tal punto la nostra mente e il nostro spirito da avere ripercussioni sul piano fisico (Videodrome – David Cronenberg).
Per Wilbur Mercer difatti non é affatto facile la scalata. Degli oppositori chiamati Assassini, una impalpabile e angosciante presenza identificata come il Male, lo perseguitano con pietre scagliate dall’alto, che oltre a rallentare l’ascesa gli procurano lividi e lacerazioni sul corpo. L’empatia con Mercer è talmente alta che gli stessi interfacciati alla scatola empatica accusano ferite reali negli stessi punti lesi di Mercer.

Ciò che risulta interessante è la dimensione mistica del Mercerianesimo. Il collegamento con la scatola empatica è in sostanza un momento di multiconnessione e condivisione spirituale nel quale è possibile “percepire” gli “utenti” connessi in quel momento, i loro pensieri, le loro gioie e i loro dolori quotidiani: la empathy-box diviene quindi una sorta di medium telepatico per la realizzazione di un conscio collettivo attraverso una comunione mistico-emotiva con l’Altro. Per il romanzo si tratta di una pratica di fusione rituale, per non sentirsi soli e farsi forza in una vita prossima allo sfacelo sociale: le similitudini con il sentimento di fede e la pratiche di preghiera di una comunità di credenti come quella cristiana sono innumerevoli.
Si può affermare quindi che la scatola empatica, mediante un Avatar catalizzatore chiamato Wilbur Mercer, sia un recipiente che svolge una funzione morale: raccoglie sentimenti, emozioni e stati d’animo trascendendoli dall’individuo singolo e trasmettendoli in condivisione ai linkati, contribuendo quindi ad uno stato cosmico-mistico di com-partecipazione collettiva. Nel romanzo persino l’O.N.U. pare approvare, affermando che la fusione empatica del mercerianesimo riduce il tasso di criminalità rendendo i cittadini più consapevoli delle condizioni del proprio prossimo.
ANALOGIA - L’analogia con i computer-games è lampante: basti pensare ad una stanza multiplayer nei quali si è in chat, non necessariamente durante una sessione di gioco, la quale rende partecipi i linkati alla condivisione dei propri stati d’animo, sublimandoli e promovendo al contempo dinamiche di reciproca empatia (o meno). X-Box Live, il futuro Home di PS3, i MMORPG e i mondi persistenti quali Second Life, ecc… sono assimilabili a social network nei quali è possibile raccontarsi, mettere in circolo la propria personalità e non di rado confortarsi.
L’analogia che ne risulta è più che marcata.
Un altro parallelismo è dato dalla longevità di Wilbur Mercer e gli Avatar dei Videogames. La caduta di Mercer nella fossa e il suo affrontare nuovamente la sfida della salita esalta la concezione di resurrezione dopo il fallimento, successiva alla morte simbolica e al Game Over prima di un’altra partita.
Nel romanzo di Dick Wilbur Mercer e la scatola empatica svolgono una funzione di equilibrio psico-sociale attuata grazie al lavoro sullo scoramento esistenziale degli interfacciati. Pur trattandosi di strumenti operanti in contesti psicologici differenti, i videogiochi, vissuti in single player o in co-operativa, oltre l’intrattenimento dispiegano momenti di scambio culturale e sublimazione di certi stati umorali nonché, nel caso di software ludo-didattico, strumenti per l’aquisizione di cognizioni utili sulpiano pragmatico-reale.

Buster Friendly odia i Videogiochi. Una figura importante per l’economia del romanzo di Dick è lo show-man Buster Friendly, sempre pronto a ridicolizzare video e radio fonicamente Wilbur Mercer e la scatola empatica. Verso la fine del romanzo Buster Friendly renderà pubblico lo scoop, rivelando agli attoniti spettatori che Wilbur Mercer non è altro che un vecchio attore alcolizzato, filmato alcuni anni prima in uno studio creato scenograficamente ad hoc mediante riprese che sarebbero poi state utilizzate da una fantomatica emittente per creare il contenuto della scatola empatica, dando vita al mercerianesimo.
Wilbur Mercer è quindi una sorta di programma televisivo proiettato della scatola empatica, un palinsesto mono-tematico composto da tanti brevi film dal semplice potere suggestivo che in sé non possiedono nulla di mistico.
Dopo la rivelazione gli adepti del mercerianesimo sono sconvolti poiché, come si legge a pag. 77: Wilbur Mercer non è un essere umano; si tratta evidentemente di una entità archetipica proveniente dalle stelle, sovraimposta alla nostra cultura attraverso una specie di matrice cosmica…
Buster Friendly gode quindi nel ridicolizzare la dipendenza religiosa degli umani da una manipolazione tecnologica esterna. Egli delegittima Mercer e il mercerianesimo (nonché l’aspetto religioso che esso ha assunto) a causa della mera finzione scenica (e i VG sono finzione digitale). La scatola empatica crea semplicemente una allucinazione consensuale mediante immagini e suoni, nascondendo la natura di costrutto artificiale dei contenuti proiettati.
Ma ciò che infine viene dedotto dal romanzo è che in realtà Buster Friendly teme Mercer poiché, non avendo la sensibilità e l’empatia necessaria per fondervi, egli rappresenta la minaccia che rammenta a lui ed altri come lui una piccola ma importantissima cosa: di non essere umano. Lo show-man Buster Friendly è di fatto un Androide – un organismo sintetico, una entità segnata dalla mancanza di una qualità umana per Dick fondamentale: l’empatia per il prossimo.
ANALOGIA - Buster Friendly gioca il ruolo di detrattore delle esperienze ricavate dalla fruizione dei contenuti videoludici attuali. Egli assume la figura dei Ministri, dei critici d’Arte non-videoludici e degli integralisti inveterati (gli Assassini, il Male culturale per il medium), vale a dire i soggetti androidi verso il VG e il videogiocatore in quanto cronicamente incapaci di empatizzarvi, sempre pronti a liquidarli astiosamente con l'inettitudine di chi é avulso a compiere il minimo passo per comprenderli. Si tratta infatti di un deficit strutturale, di una carenza che richiederebbe un innesto culturale difficile da attuare.
Ciò induce a riflettere sull'ambiguità di un integralismo che tende costantemente a minimizzare la rilevanza dei VG sulle emozioni umane risultando però sempre pronto a scagliarvisi contro temendone la ripercussione sul piano sociale (a causa di presunti modelli operativi ed influenti sulla psiche).
Il sentimento é comprensibile: d’altronde Wilbur Mercer causa fisicamente agli altri ciò che accusa fisicamente egli stesso, quindi...

In realtà Mercer rappresenta l’elevazione del cyberspazio sulla vita, del nostro cyberspazio interiore, vale a dire lo spirito umano. Cosi come afferma il protagonista a proposito di Mercer nelle ultime pagine del romanzo: “E così è questo che Mercer vede (…). Vita che noi non riusciamo più a vedere; vita sepolta con cura fin quasi alla fronte nella carcassa di un mondo morto. In ogni più piccolo granello dell’universo probabilmente Mercer riesce a vedere la vita invisibile. Adesso lo so. E una volta che ho imparato a guardare attraverso gli occhi di Mercer, magari non smetterò più”.
Come a voler dire che una volta che s’impara a giocare, magari non si vuol smettere più.
E’ chiamata vita invisibile quella vita che non si vede, ma che è operativa singolarmente in ogni essere umano. Poterla sentire, fondendo la propria a quella altrui, dando vita ad una spiritualità collettiva potente, ad un comune cyberspazio interiore, dall'interno all'esterno e viceversa, è ciò che inconsciamente attuiamo nell’interfacciarci alla Rete, ogni volta che siamo connessi, ogni volta che entriamo in una stanza condividendo il nostro tempo su XboxLive, Home, Second Life, ecc...

Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, forse, è davvero di reciproca empatia.
Philip Kindred Dick potrebbe aver ragione.

Luigi "BraunLuis" Marrone





Brainstorm: Per una Mistica del VideoGiocare

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]
Brainstorm: Per una Mistica del VideoGiocare
Del 27-02-2008

Brainstorm – Generazione Elettronica
Titolo originale: Brainstorm
Regia: Douglas Trumbull
Storia: Bruce Joel Rubin
Sceneggiatura: Philip Frank Messina, Robert Stitzel
Fotografia: Richard Yurichich
Costumi: Donfeld W.
Scenografia: John Shore
Musiche: James Horner
Montaggio: Freeman a. Davies Cox, Edward a. Warschilka Shore
Anno: 1981 (USA)
Nazione: Stati Uniti
Produzione: Joel Freedman per JF Production/MGM
Distribuzione: Metro Goldwin Mayer/UA (1984)
Durata: 106 min.
Effetti: Eric Keogh, Martin Shore, Tom Atkinson, Robert Atkinson, Don Baker, Robert Hall, Mark Shore, Alison Atkinson
Cast: Christopher Walken (Dr. Michael Brace) - Natalie Wood (Karen Brace) - Louise Fletcher (Dr. Lillian Reynolds) - Cliff Robertson (Alex Terson) - Jordan Cristopher (Gordy Forbes) - Donald Hotton (Landan Marks) - Alan Fudge (Robert Jenkins) - Joe Dorsey (Hal Abramson) - Bill Morey (James Zimbach) - Jason Lively (Chris Brace) - Darrell Larson (Tecnico Sicurezza) - Stacey Kuhne Adams (Andrea) – John Hugh (Tecnico lab. animali) Keith Colbert (Dr. Ted Harris) - Jerry Bennett (Janet Bock) - Lou Walker (Cuoco).

BRAINSTORM.
Per una mistica del Videogiocare.
(Saggio pubblicato su Videoludica il 02/11/2006)
Brainstorm è un film importante.
Esteticamente e strutturalmente non un bel film forse, ma è un film importante.
Dedicato alla scomparsa dell’attrice Natalie Wood (Gioventù Bruciata – 1955, Sentieri Selvaggi - 1956, West Side Story – 1961) avvenuta poco prima del termine delle riprese, (Brainstorm - USA 1981 – di Douglas Trumbull) ha una portata visionaria e una particolare importanza filosofica che a tutt’oggi risultano ineguagliate.
Da un punto strettamente stilistico il film annovera diversi elementi cari all’immaginario CyberPunk : grafica poligonale segnata da suggestioni cyberspaziali, condizionamento cerebrale, sesso virtuale, sim-stim, hacking e tanto di governo e servizi segreti ad intridersi in meccanismi sociali non del tutto pacifici, regalando in tal modo allo spettatore del 1981 suggestioni totalmente (o quasi) inedite, molto diverse da quelle descritte dalla fantascienza tradizionale.
Sarà forse che l’accostarsi e il rapportarsi a Brainstorm era alquanto difficile nel 1981 per la mancanza di categorie e strumenti cognitivi atti a penetrare il tessuto fertile del suo immaginario, eppure non stupisce affatto che la pellicola all'epoca sia stata accolta tiepidamente nonché poco compresa.(Nota1)
Se i primi 20 minuti di film sono ricchi di personalità, di pathos e di fascino elettronico-ansiogeno, montaggio e appeal visionario perdono palesemente colpi col passare del tempo, rallentando di molto l’attenzione dello spettatore. Sul teleschermo inoltre, gli effetti speciali realizzati dal regista per una pellicola di 70 mm per il grande schermo sono in gran parte vanificati.
Da un punto di vista retrospettivo il film appare quale primo vero antesignano "consapevole" dei cyber-cinema, vero e proprio rivelatore e anticipatore di idee sulle quali si reggeranno numerose opere a seguire (Tron, Fino alla fine dei mondo, WarGames, Strange Days, Il Taglíaerbe, ecc).

Ma perché Brainstorm è così importante ?
In Brainstorm alcuni ricercatori realizzano un casco iper-tecnologico che permette di immergere sensorialmente un individuo nei dati psico-fisici percepiti in tempo reale o registrati precedentemente da un altro soggetto (munito di casco a sua volta), uomo o animale che sia. Tatto, sapore, vista, odore, udito, impulsi nervosi, sensazioni… la mente del soggetto ricevente tramuta il playback di dati registrati in dati propri, creando un vero e proprio circuito di feedback simulativo con immersività al 100%, ben oltre qualsiasi manifestazione telepatica.
Diversamente dai videogiochi, non è possibile influire sul playback in quanto non esiste alcun tipo di interazione ma solo la possibilità di rivivere l’esperienza sensoriale pre-registrata, con aderenza totale. Brainstorm lascia intendere che una simile applicazione in ambito didattico, nonché per edificanti esperienze virtuali, potrebbe eventualmente trovare brillanti utilizzi.
Ma oltre all’interesse del governo e dei servizi segreti militari pronti a sfruttare per scopi bellici la portata del ritrovato tecnologico, prima di estromettere i ricercatori dal continuare gli studi, questi scoprono che il casco può registrare i ricordi coscienti nonché l’inconscio di chi lo indossa, contemplando persino le affezioni patologiche (come si scoprirà quando il ritrovato tecnologico cadrà in mano all’equipe di ricerca dei servizi segreti): rimozioni, traumi, ossessioni, psicosi, schizofrenia… in altri termini, é possibile registrare cavie umane inducendo loro il manifestarsi di sintomi patologici per vivere direttamente il loro punto di vista sensoriale, visionario, emotivo e psicofisico.
Prima del consolidarsi del dispotismo governativo, Lillian Reynolds (Louise Fletcher), scienziata chiave del progetto, accanita fumatrice e donna dalla facile irascibilità, è vittima di un attacco di cuore nel suo laboratorio, mentre sta lavorando sola, di notte, all’ottimizzazione del progetto.
Prima di morire, durante una scena altamente drammatica, Lillian riesce a trascinarsi sino alla postazione di registrazione del collega Michael Brace (Cristopher Walken), indossare il casco (nel frattempo miniaturizzato sino alle dimensioni di una fascia per capelli) e registrarsi su di un nastro magnetico a lettura ottica.(Nota 2)
Il nastro registra quindi la sua agonia e la sua morte sino a “fine pellicola”.
La visione di questo nastro, vero e proprio testamento spirituale della ricercatrice, dapprima suscita nel collega Michael attimi drammatici in quanto gli ripropone psicofisicamente l’insufficienza cardiaca e l’agonia degli ultimi momenti di vita della scienziata. Successivamente, apportando dovute modifiche all’hardware del sistema e inibendo gli impulsi sensoriali deleteri lasciando solo quelli visivi e uditivi, il nastro/testamento permette al Dr. Brace di viaggiare e assistere al passato e ai ricordi della donna, sbrogliando la matassa di rapporti nodosi del film e valorizzando retrospettivamente la ricercatrice quale figura chiave dell’intera ricerca (con tutte le dovute opposizioni umane da lei incontrate per attuarla).
Ma ben più importante è il miracolo memorizzato dal progetto Brainstorm: il nastro ha difatti registrato un vero e proprio viaggio post-mortem della donna, comprensivo del distacco dello spirito dal suo corpo e trasmigrazione spirituale di presunta espiazione che dall’Inferno conduce alla visione del Paradiso.
Il Dr. Brace, interrotto bruscamente all’inizio dall’esperienza sensoriale mistica, farà di tutto per recuperare e visionare completamente il nastro, soprattutto dopo esser stato tagliato fuori dalle richerche.
Negli ultimi minuti di film, Michael Brace vivrà questo viaggio trasmigrante dello spirito della Dr.ssa Reynolds sospeso in una estasi sensoriale psico-mistica ed uscendone infine spiritualmente e definitivamente illuminato.
Brainstorm (in Italia Brainstorm – Generazione Elettronica), pur annoverando elementi cari all’universo Cyberpunk, è un film che viaggia oltre il genere, in primis perché la tecnologia diviene espediente, non l’ideologia : la funzionalità dell’helmet realizzato dai ricercatori si trasforma infine in un miracoloso supporto tecno/mistico per la Visione Ultima, ben lungi dal rappresentare un palliativo per una seducente poetica pessimista ed esistenzialista.
La tensione congenita all’universo Cyberpunk, letterario o cinematografico che sia, il quale in genere ipotizza società dove il pessimismo filosofico/esistenziale viene solitamente a specchiarsi nella convivenza con androidi i quali, similmente agli uomini, non hanno alcuna certezza delle proprie origini e del loro futuro (malgrado il loro determinismo tecnologico), in Brainstorm viene definitivamente risolta.
Dio esiste.
Dio c’é.
Lo Spirito può disincarnarsi dal corpo per trascendere la materia.
Inferno e Paradiso sono ambienti spiritualmente palpabili.
E last but not least, Brainstorm avanza l’ipotesi che mediante scienza e ricerca tecnologica è possibile trascendere il mondo materiale sino alla visione del Divino.
Brainstorm è inotre un film filosoficamente importante da un punto di vista strettamente video-ludico.
A proposito dello stato di trance del videogiocatore immerso in una esperienza virtuale, Ivan Fulco scrive ne Lo zero ludico – Decostruzione del videogioco e fondamenti della pulsione ludica (Per una cultura dei Videogames. Teorie e prassi del videogiocare. A cura di Matteo Bittanti. Unicopli. 2002/2004) – (parentesi e corsivi miei) :
“ Quello che conta è che in quel momento, dopo la decisione di proseguire (nel videogioco), il giocatore è quasi felice. Per un breve istante può anche credere di vincere nel gioco della vita. Almeno fino a rendersi conto che non si tratta altro che di un videogame “.
Rielaborando il pensiero di Fulco in modo polisemico e speculativo, è possibile chiedersi:

E se questa felicità in ultima analisi non fosse altro che il sintomatico e inconsapevole esplicitarsi di una pulsione mistica appartenente a tutti i fruitori di realtà virtuali, videogiocatori compresi, ossia quella di raggiungere una ideale fonte di energia del Tutto ?
E ancora : E se questa complice e inconsapevole pulsione insita in ogni gamers fosse assimilabile all’esperienza panica legata alla possibilità di incontrare il Divino ?

La forma mentis del videogiocatore attento alle vibrazioni del mondo videoludico tende a sensibilizzarsi osmoticamente con l’universo d’informazioni che lo circonda. Le riviste di settore hanno la tendenza e il potere di strutturare l’apparato filosofico e per certi versi metafisico del lettore.
In Videogiochi e Cultura della Simulazione. La Nascita dell’Homo Game. (Editori La Terza Ed.2004), Gianfranco Pecchinenda, nel paragrafo 5.2 denominato Corrispondenze, scrive (testo fra parentesi mio) :
“Se però si analizza la struttura della maggior parte delle riviste (che trattano temi videoludici) è possibile notare quello che probabilmente rappresenta uno dei motivi principali che si trova alla base della crescente espansione del mercato dei videogiochi : il meccanismo della corrispondenza, basato sull’idea che il mondo in cui viviamo, e gli eventi mondani che in esso si verificano, non sarebbero altro che una manifestazione inferiore corrispondente ad un macrocosmo di ordine superiore, di carattere trascendente”.
I videogiochi e il loro universo virtuale interessano, blandiscono, ammaliano il videogiocatore, ingenerando l’idea di rimandare ad un altro mondo dal carattere trascendente.
La fascinazione di alcune produzioni rientranti nel genere survival horror (solitamente giocati in single player, muniti di cuffia audio e favore complice della notte) quali ad esempio la serie Silent Hill (Konami, 1999) e Forbidden Siren (2004, SCEI) per citarne alcune, ingenerano un interesse filosofico/speculativo per l’esistenza nonché per le tematiche orfiche dell’esistere molto più lungimirante di quanto si possa immaginare. La ricerca di simbolismi testuali e non, le analisi di carattere antropologico/culturale nonché l’interpretazione metafisica dei comparti ludonarrativi, differenti per ogni videogiocatore, sono eventi generati in modo naturale dal genere di appartenenza. Forum di esegesi per tali artefatti videoludici, assieme ad altre produzioni videoludiche fortemente autoriali ma per motivi estremamente differenti, sono spesso annoverabili quali i più lunghi e prolifici testi speculativi nella rete, per i quali le trattazioni rilasciate dagli utenti possono assumere una tale forza autoriale autonoma da annoverarsi quale vera e propria trattazione culturale di interesse generale per tematiche vertenti su l’Aldilà, Religione e Divinità.
E’ innegabile che i videogiocatori appassionati affrontino tali esperienze videoludiche con una predisposizione mistica o pseudo-mistica, secondo la quale viene incosciamente postulata la realtà del divino e per la quale lo spirito del gamer sente di conquistare una possibile risoluzione del sé o dell’esistere in generale.
Tale tensione verso il trascendente è un fattore affatto trascurabile per l’acquisto di un prodotto di tale genere, di concerto con la possibilità di trattarne e discuterne poi le suggestoni in una comunity con i medesimi interessi e le stesse pulsioni : quelle di affrontare viaggi nei quali esiste la possibilità videoludica di dare un senso all’esistere, di spiegare la cosmo-genesi o di interpretare i rapporti fra Uomo e Divinità.
E’ lecito quindi supporre che tale fascinazione generi un alto coinvolgimento e senso di partecipazione al gioco in quanto inconsciamente frammista al timore panico, esasperato dallo schianto emotivo con il deforme e l’aberrazione presenti nei survival horror, di imbattersi nel Divino.
Tornando a trattare del film di Trumbull, se la tecnologia rende possibili spazi di visione corpo-trascese chiamate Realtà Virtuali/Matrice/CyberSpazio/VideoGames, in Brainstorm la tecnologia permette all’uomo la Visione Ultima, probabilmente la più fondante e importante : la visione di del Divino.
Nel seminale romanzo Neuromancer (in Italia Neuromante. W. Gibson, 1984) Case, un hacker mercenario, viene privato della possibilità di connettersi al cyberspazio e condannato alla prigione materiale del suo corpo di carne. Egli soffre per il fatto di essere abilitato a percepire solo la realtà materiale, ad essere semplicemente un uomo non-connesso con lo spazio trascendente chiamato Cyberspazio. L’eccitazione propria degli hackers insita nell’immaginario decadente Cyberpunk, ovvero quella di disincarnarsi e smarrirsi nell’Ignoto del Cyberspazio in luogo dei dati della realtà materiale, in Brainstorm viene definitivamente risolta.
Non è mistero infatti che ogni realtà virtuale é rappresentazione elettronica di un ambiente fisio-trasceso, ma ben più filosoficamente stimolante è ammettere che l’attrazione, l’eccitazione, la curiosità per l’Altrove permesso dagli spazi videoludici nasconde la fascinazione per la possibilità di incontrare e di restare illuminati da qualcosa che potrebbe essere lo scopo ultimo dell’esistenza.
Immergersi in videogames vuol dire sempre immergersi in realtà fisio-trascese, universi elettronici di carne-assenti. L’eccitazione e la voglia di videogiocare trasformano la prima partita ad un nuovo Videogame in un viaggio inizialmente carico di mistica tensione verso l’Ignoto (VideoLudico).
L’accanimento del Dr. Brace in Brainstorm, il suo spasmodico bisogno di terminare la visione del nastro trascendente che lo condurrà all’illuminazione, esplicita la pulsione inconscia di un qualsiasi uomo-videogiocatore appassionato di tecnologie atte ad esperienze di realtà virtuali: viaggiare per giungere alla scaturigine dell’Ignoto dello spazio virtuale, al fine di giungere alla visione della Verità Ultima, del significato probabile e assoluto della propria esistenza.
In Michael Brace, l’eccitazione di esperire la realtà virtuale dentro un nuovo software, tipica del videogiocatore, si tramuta in eccitazione di esperire la realtà (spirituale) dentro una mente umana.
Viceversa vuol dire che il processo è il medesimo: lo spasmo del videogiocatore che acquista nuovo software e non vede l’ora di smarrirvisi dentro al più presto, così come la trance videoludica o l’annullamento della realtà ordinaria durante il finale di un buon videogame, sono stati assimilabili allo giungere della verità di quel particolare universo videoludico.
L’eccitazione mistica del Dr.Brace é generata dalla medesima cosa : giungere alla fine di un viaggio all’interno di un universo trascendente, lo spirito della Dr.ssa Reynolds, con una portata filosofica innegabilmente più fondante e spaventosa, quindi.
In entrambi i casi, l’eccitazione voyeristica e la tensione scopica remano a favore di un viaggio illuminante. La smania di (video)vedere di Michael Brace non è altro che eccitazione per un viaggio nella mente e nello spirito umano, in luogo di uno spazio creato da un software videoludico, con l’aggiunta che nella fattispecie, Scienza e Tecnologia si fanno medium per la risoluzione del significato ultimo dell’esistenza, punto nodale dei problemi filosofici.

Per una Filosofia del Videogiocare, infine.
L’attrazione, l’entusiasmo, l’aspettativa per l’Altrove permesso degli spazi Videoludici è con tutta probabilità specchio dell’inconscia tensione verso un possibile Aldilà. Il videogiocatore si immerge in cyberspazi per sostanziare altre vite, altre possibilità fantastiche: egli tenta il disincarnarsi dal proprio corpo per immergersi in altri schemi sensoriali, altri punti prospettici, percezioni e facoltà virtuali di altre entità digitali. In altri termini, ll videogiocatore si immerge in cyberspazi videoludici per trasmigrare la propria anima in ambienti che fisio-trascendono i dati della realtà sensoriale non “in- game”.
Ogni volta quindi, l’eccitazione dei videogiocatori per nuove esperienze immersive in cyberspazi videoludici potrebbe essere paragonabile ad una occulta tensione metafisica, in quanto comportante l’abbandono del proprio corpo e la tendenza all’oblio del dato materico della realtà ordinaria a favore di una con-fusione spirituale con l’ambiente virtuale da vivere/esperire/rendere complice col proprio sé.
La pulsione al videogiocare esplicita quindi la tensione all’abbandono del proprio corpo per immergersi in un contesto disincarnato rispetto alla propria realtà materiale.

A questo punto è doveroso interrogarsi su tale quesito: L’eccitazione, la felicità donata dal disincarnarsi che spesso si prova immersi in un ambiente virtuale ludo-interattivo, tratta forse del preannuncio dell’ineluttabile abbandono del proprio corpo, un giorno, per una nuova sensorialità orientata alla visione di una Divinità ?
Il videogiocare felice, ricco di pathos, emotivo e pieno di sensazioni, comportando il potenziale dislocamento dal proprio essere verso un Altrove (VideoLudico), é assimilabile quindi ad una tensione mistica, trasmigrante verso l’Infinito, per la quale la Felicità è sinonimo di compenetrazione e confusione con Esso.
In altri termini, Avatar e Divinità che diventano davvero un’unica cosa.
Consapevolmente o meno, Brainstorm può informare di tutto questo, nel suo finale.
Per una mistica del videogiocare, Brainstorm andrebbe visionato.
Note
1) Data la massiccia line-up di tecnologie e pseudo-tecnologie in mostra, Douglas Trumbull, esperto in effetti speciali, per rendere più immersivo il film avrebbe desiderato filmare parti di Brainstorm in Showscan, ossia Widescreen 60 frame-per-second, ma i costi di retrofitting dei teatri dove il film sarebbe stato proiettato sarebbero risultati proibitivi.
Se la versione Showscan fosse stata realizzata, ciascun frame non “Brainstorm” sarebbe quindi stato stampato due volte per generare un normale rate di film a 30 fps, adatto a supplire alla riprese non-widescreen. L'intenzione era di generare un punto di vista, presumibilmente soggettivo, che potesse avvicinarsi a quello che i personaggi sullo schermo stavano osservando.
2) In realtà il nastro magnetico utilizzato in Brainstorm é tutt’altro che un particolare formato in commercio nel 1981. Si tratta di una varietà di nastro decorativo argentato/dorato fatta da 3M, venduto soltanto nelle larghezze di 4 pollici, costringendo gli addetti a sfilarlo manualmente sino ad adattarlo nelle macchine da nastro da 2 pollici. Per aumentare i riflessi luminosi, i nastri venivano trattati più volte con una sabbiatrice, avanti e indietro, risultato che sbalordì per i vividi riflessi luminosi che il al nastro proiettava. “Una di quelle cose che sono apparse meglio in pellicola quando abbiamo finito di girare” ha commentato Douglas Trumbull.



La sensualità spaziale di Silent Hill

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

Del 17-03-2008
Anche lo spazio "gioca" la sua parte

La Silente Collina opera un rapimento avvolgente su molti gamers, un risultato fra poco decennale.
Ma da dove prende forma tale fascinazione?
In realtà Silent Hill possiede tre mani: con una stringe David Lynch e la rarefazione atmosferica dell’Angelo Badalamenti di Twin Peaks, la seconda é tesa verso la visionarietà dell’Adrian Lyne di Allucinazione perversa mentre con l’ultima abbraccia la demiurgica malvagità presente nel Session9 di Brad Anderson.
Classiche cittadine americane di periferia macchiate da follie private dietro facciate ordinarie, con l’originaria story-line arricchita dal plot dell’ultimo "Origins" che, come da titolo, rimane ancorato alle ideologiche incarnazioni della serie.
Non è fuori luogo parlare di “incarnazioni” (tutt’altro che fantomatiche) in Silent Hill, data l’inflazione di proiezioni astrali in grado di creare realtà parallele, alternative (Otherworld) nelle quali ci si imbatte in deformità partorite da visionari animi rancorosi, uomini dal passato torbido e traumatizzato, talvolta omicida.
Il brodo eterico/ noosferico - che rende possibili tali emanazioni in Origins è ancora una volta la mente provata della povera Alessa Gillespie del primo Silent Hill: lei, l’innocenza fatta diavolo che conosce l’odio e che attira a sé personalità dalle potenti energie psichiche, il kit-development per i traumi dei protagonisti di Silent Hill che fanno a loro volta da monster-designer.
Avvicinarsi a Silent Hill è sinonimo di invischiamento in un tessuto simbolico/metaforico nel quale l’immagine/filmato interroga intimamente (e contestualmente) l’osservatore attraverso uno scambio non superficiale, bensì ampio e stimolante. Ignorare tale elemento comporta inevitabilmente la mistificazione dell’approccio (Silent Hill? Mah, un semplice survival horror in cui si ammazzano mostri…) con relativa noia data dall'inevitabile mancanza di ludo-appeal.
In realtà l’opera Konami, in misura similare alle opere cinematografiche summenzionate, interroga il gamer/fruitore la cui fascinazione è garantita da un’intrigante sfida giocata sulla polisemia interpretativa, per la quale partecipazione critica attiva e speculazione teorica restano fattori fondanti.
Un viaggio dentro un viaggio, ogni volta, dai recessi della psiche umana all’esperienza virtuale offerta nella fattispecie dall'ultimo incarnato su PSP: Origins è difatti una breve avventura (6 ore circa) caratterizzata da un’appagante sintesi dei punti di forza della serie, splendidamente ottimizzati per il formato hand-held.
Ma ciò che sorprende del portatile Sony è la preservazione della sensazione spaziale relegata agli ambienti esterni della Silent Hill, indice della storica bontà dell'opera. E' ancora una dilatata sensazione d’apertura e respiro, aerea e lenitiva quella che avvince quando, attraverso il segno inconfondibile di un’estetica mai abbandonata, si prova l’emotivo sollievo di tornare al salvifico biancore di strade nebbiose dopo la macilenta cacofonia degli stage dell’Otherworld.
La diversa natura degli ambienti presenti in Silent Hill crea de facto i presupposti per un entropico dialogo dalle suggestioni e implicazioni emotive che fanno la vera differenza fra le esperienze video ludiche di oggi.
Silent Hill resta ancora oggi l’unica esperienza video-interattiva nella quale location interne ed esterne possiedono un’insuperata preponderanza narrativa grazie al dialogo che si instaura fra le due parti, possibile grazie alla continua ri-conformazione degli spazi di gioco.
Gli ambienti di Silent Hill equivalgono a entità vive, pulsanti, dotate di una personalità psicosomatica (dovuta a traumi umani) cariche quindi di paradossi visivi, dettagli liminali e simboliche idiosincrasie: ogni luogo, ogni spazio, ogni cartello pubblicitario, topografia e onomastica stradale si trasformano in fertili tessuti metaforico-simbolici dal monitum sinistro, la cui interpretazione diviene parte integrante dell’esperienza di gioco.
Seppur le sue strade siano limitate da baratri aperti sul vuoto, impalcature e vicoli morti, nello spazio esterno della Silent Hill le traiettorie paiono moltiplicarsi, le possibilità di fuga aumentare e l’ansia dietro il raggiungimento di una meta rosso-cerchiata sulla mappa accresce il senso d’un funzionante, salvifico scopo: nessun'altra esperienza videoludica riesce a donare il senso di un cosi fluido movimento fra la diversa natura di spazi ambientali.
Ed é per tale motivo che scindere Silent Hill dal concetto di spazio inteso come area esplorabile equivale a considerarlo ciò che non è mai stato: un semplice survival horror il cui fulcro é il combattimento e la fuga.
Silent Hill è una esperienza congeniale per i gamers sensibili alla ricerca di vive suggestioni d’ambiente visivo-sonore, dinamiche introspettive umane e ruolo attivo nella speculazione interpretativa del testo ludico.
Poiché dato un determinato ambiente virtuale, fosse anche una città chiusa e altamente pianificata come la Collina Silente, dove c’è movimento c’è pensiero, in quanto le traiettorie generano spazi.
E le possibilità degli spazi non sono altro che le possibilità della mente.


Luigi "BraunLuis" Marrone




Il cuore di Assassin's Creed

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

Del 04-04-2008

(A volte scomodando Metal Gear)
Sin dall’inizio non era facile andarvi cauti con l'entusiasmo, cosi come difficile risultava non essere troppo severi col proprio scetticismo. Assassin’s Creed, sin dalle prime presentazioni, lasciava infatti presagire molto, o molto poco di vario: free-roaming pedestre o equino in Terra Santa, la raccolta di indizi e le sub-missioncine cadenzate da contestuali scontri all’arma bianca, oltre ovviamente agli interrogatori, le mimetizzazioni fra monaci e gli assassini furtivi.
Ma ciò che non dispensa affatto l’opera da una considerazione posticcia è l’inguaribile indolenza che é stata in grado di sollevare in seno alla comunità dei gamers, poiché é sempre il buon giocatore che alla fine conta, e nell’evidenza della noia che caratterizza buona parte del gioco significa che qualcosa nei meccanismi del concept è andato storto.
Difatti Assassin’s Creed tratta di un’esperienza caratterizzata da spazi pullulanti, vivi e ricchi di dettagli implementati in una Intelligenza Artificiale dei NPC a tal punto rigida da suscitare impressioni più che contrastanti: il risultato è stato quello di veder spalmato su video un costrutto digitale dalla parvenza di bellezza perfetta in grado poi di esplodere in una parossistica incoerenza, quasi una debolezza congenita.

Primo: Una regola di game design
In un videogioco l'Intelligenza Artificiale ha il dovere di coinvolgere e rapire tanto quanto l'estetica (se non oltre). Se nella TV fatta di veline non sempre ciò corrisponde, nel digitale ludo-interattivo ciò VA FATTO poiché la bellezza digitale senza intelligenza produce noia a lungo contemplarla. Trattandosi infatti di costrutto digitale, fittizio, l’esuberanza e l’estetica degli spazi di Assassin’s avevano bisogno di tutt’altro trattamento ludo-intellettuale.
Se è difatti possibile affermare che Space Invaders e il suo gameplay possono tranquillamente rimanere nel tempo bidimensonalizzati su schermo senza che gli alieni siano bagnati da sorgenti di luce dinamica, Assassin's Creed è l’esempio esattamente opposto: avrebbe necessitato di una IA implementata in più ricche e varie possibilità di gioco proprio a causa della sua splendida, calda luce profusa nei suoi ambienti mondani.
E’ con l’impressione di un delitto artistico quindi che si pensa all’esperienza Ubisoft, poiché, accertato che la varietà e le possibilità di gameplay dovrebbero viaggiare di pari passo con le possibilità tecnologiche, Assassin’s aveva il DOVERE di osare di più.
Non è azzardato quindi affermare (da un punto di vista della profondità strategica e del coinvolgimento ludico, lasciando la sua storia a parte) quanto siano di gran lunga preferibili i pattern, le reazioni, le possibilità e la curiosità suscitate nel giocatore dagli algoritmi dietro le guardie di uno Snake Eater ad esempio (Metal Gear quale giocattolo aperto, sand-box in spazi più ristretti rispetto ad Assassin’s) piuttosto che la fauna che popola gli spazi in Terra Santa.

Secondo: I doveri di una Big-Production
E’ innegabile quanto Assassin’s sia stato ideato, sviluppato e testato prevalentemente su e per XBox360: dalla stabilità del codice alla resa finale su schermo, la versione Xbox360 presenta infatti cromatismi più vividi e caldi rispetto alla controparte Sony, elemento affatto trascurabile poiché, da un punto di vista squisitamente artistico, l’appeal estetico risulta per Assassin’s fondante quanto se non più del resto.
Andando oltre il discorso delle patch correttive rilasciate da Ubisoft, è invece doveroso affermare che se all'uscita un videogioco d'alto profilo risulta difettoso in modo congenito rispetto al medesimo per un'altra piattaforma (data anche la promozione ultrablasonata), ciò non fa altro che denotare una sibillina mancanza di attenzione verso chi lo ha acquistato al Day-One (volendo vivere l’esperienza artistica subito, integralmente e pagando inoltre il medesimo prezzo della controparte).
Il difetto di produzione su PS3 (per fortuna non irreversibile trattandosi di dati digitali) aggiunge comunque al resto un altro fattore negativo, dal peso non trascurabile, data l’integrità originaria di cui un prodotto dovrebbe essere fornito (seppur, riguardo il videogioco, sotto gli antipatici termini di “servizio” di intrattenimento digitale) quando il medesimo si offre al mercato.
Altra considerazione merita poi la "feature” bandierine da collezionare, spinta motivazionale affatto trascurabile per i possessori Microsoft alla ricerca di GamerPoints ma abbastanza accessoria per non dire inutile su Sony (senza achievement Assassin's é ancora più indolente su Play3, e avendo Assassin’s un debito profondo nel motivare il giocatore è tutto dire).
Ciò comporta un’ulteriore analisi a proposito delle produzioni multipiattaforma. Nel momento in cui una Software House adatta il proprio prodotto secondo le caratteristiche precipue dei vari sistemi, ciò dovrebbe implicare non solo una diversificazione della configurazione dell’interfaccia di controllo secondo la piattaforma (i tasti del Pad del 360 su PS3 o il Wii-mote ad esempio) ma soprattutto una nuova ideazione o ripensamento di alcuni elementi di gameplay secondo le caratteristiche endogene alle piattaforme stesse.
Le bandierine da collezionare in Assassin’s Creed su Xbox360 sono difatti un esempio di possibilità di gameplay (ricognizione fra tetti e suolo che, è doveroso specificare, non sbloccano nuovi costumi/musiche/ArtWork ma ripagano sbloccando punti per il proprio GamerScore) per le quali Ubisoft ha strutturalmente “ideato” il gioco stesso su X360, senza pensare al relativo disinteresse della controparte Sony.
Si tratta di un orientamento produttivo che, nel caso di titoli multipiattaforma andrebbe abbastanza ripensato.

Terzo: La questione narrativa - Pensando Ubisoft
Di questa sempre più importante software house l’impressione che spesso se ne ricava è la consolidata tenacia nel voler implementare narrazioni mature e consapevoli senza mai voler modificare di una virgola il granitismo di un game-design istituzionale, rigido quanto immutabile. Pensando ai giochi Ubisoft non è difficile pensare a sceneggiature di buoni narratori incastrate in spazi prestabiliti tra il gameplay e i vari snodi narrativi presenti nel gioco. Il risultato è un comparto visuale che ha uno standard qualitativo molto alto (sia ambienti che personaggi) ma quasi sempre non supportato da una autorialità forte, da una caratterizzazione empatica potente che sembri dotata di una sua vita, di una sua Intelligenza (artificiale appunto) che lasci un segno emotivo nel tempo e nel cuore del giocatore.
Potrebbe essere questo uno dei principali motivi per i quali Assassin’s Creed diverrebbe facilmente uno di quei blockbuster subito ri-piazzati sul mercato o riportati indietro per la valutazione e la promozione sul nuovo: nonostante lo splendido personaggio d’Altair infatti, a fine avventura resta poco fra le mani che abbia la forza di mantenere il gamer stretto a sé, avendo creato appunto con lui uno scarso legame “affettivo”.
E’ per questo che viene da chiedersi come si possa continuare ancora a ripetere (o come si é mai potuto affermare in principio) che Splinter Cell sia la risposta Occidentale a Metal Gear Solid: la narrazione e il peso che essa assume fra le rispettive opere è idealmente, emotivamente, artisticamente e costituzionalmente imparagonabile.
Perché una grande produzione può avvalersi quanto si vuole di scrittori o sceneggiatori di fama, ma nei videogiochi, per quelle storie che sulla carta risultano vincenti, deve essere soprattutto l’integrazione fra gameplay e personaggi che lo sorreggono (giocabili e non) ad essere solida, plausibile, emotiva e portatrice di quello spirito umano digitalmente derivato.
Se le produzioni Ubisoft spesso risultano prive di questa capacità di suscitare un’affezione nel giocatore il problema potrebbe annidarsi proprio qui.

Epilogo
Spersi nella folla di Damasco, Acri o Gerusalemme non è affatto difficile sentirsi soli, uniche vive entità nel mezzo di simulacri vuoti e indefiniti. A ben pensarci è peggio di quanto possa mai accadere nella Real Life, poiché nel Videogioco, nel mondo fittizio che dovrebbe offrire varietà di possibilità e di senso, l’indolenza del Vuoto è cosa ancor più intollerabile. Pur non volendo negare l’operatività di trama e atmosfera nell’economia dell’opera, la veridicità alla quale tendono esalta ancor di più la mente automatica e robotica dietro Assassin’s Creed, sfiancando immedesimazione e coinvolgimento e creando un senso non di rado parossistico.
Scomodando ancora l’opera Konami, allo stato attuale, pur nella sua totale, ossessiva e orientale spiccata malizia fatta di riviste di pin-up ammiccanti, scatoloni in cui nascondersi e altre gag del quale é infarcito (in risposta ad ogni Rambo/cliché battagliero occidentale), sgozzare un soldato di un Metal Gear risulta comunque più consistente di un qualsiasi assalto con lama verso una guardia inerme dell’Assassin’s.

L’assenza di una più intima, umana sensibilità fra i suoi elementi, di un equilibrio artistico più compensato fra le sue parti ha contribuito a creare in Assassin’s quel Vuoto più volte preconizzato.
Non è difficile immaginarsi come le molte professionalità al lavoro (lungamente elencate nei prosaici titoli di coda dell’Ending del gioco) abbiano svolto per bene i loro compiti produttivi: dai Senior Producer agli Engineering Director, gli Audio Lead, gli Assistenti produttori, i Coordinatori, i Technical Supporters, i Marketing Director… Assassin’s Creed ha venduto parecchio raggiungendo quasi subito il target quantitativo di vendite prefissato.

A giochi fatti però è un cuore caldo che dentro Assassin's manca, un cuore pulsante che fatica di molto a venire alla luce. Quella santa luce dove il particolare che emerge in un rosone intagliato nella pietra splende assieme al generale di una vista panoramica su di un promontorio di Gerusalemme: una luce santa inghiottita da ombre troppo profonde per non lasciar inespresso quello strano, profondo vuoto interiore da colmare.

Per questo, tu che molto puoi, solo una cosa oggi ti viene chiesta: ci metterai più CUORE la prossima volta, Ubisoft-Altair?

Luigi "BraunLuis" Marrone



Critici d’Arte: come guardano ai videogames?

[tratto da: http://www.retrogaminghistory.com]

Del 02-05-2008

Arte e Videogiochi : il progresso tecnologico e il giudizio della critica non-videoludica alla video-interazione.

Articolo già pubblicato su Videoludica.

Un luogo ancora da analizzare/immaginare/speculare a fondo, relativamente al dibattito arte e videogiochi sono le motivazioni che sino ad oggi hanno giocato a sfavore dei videogames in merito al loro potersi erigere ad Arte secondo principi estetici paradigmatici definiti, come per altre consolidate forme espressive.
Dando per assunto che ” I videogiochi non sono arte semplicemente perchè i critici di professione non hanno prodotto (o non hanno voluto produrre) dei sistemi estetici adeguati a rendere conto delle peculiarità del medium e del suo linguaggio “ (Bittanti), la domanda che propongo è la seguente :

Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta ?
E ancora :
Come possono i critici adeguare determinati principi estetici al medium videoludico essendo costretti a ri-definirli secondo il continuo processo tecnologico che, nel tempo, tende a ridefinire la stessa estetica dei videogiochi e del videogiocare ?

Prima di fornire risposte a tali quesiti, sarebbe interessante chiedersi come potrebbe essere percepita la videointerazione ludica, nonché la relativa critica specializzata nel settore, da parte di un sistema critico non-videoludico.
Soprattutto se, immaginando tale incontro, e analizzandone la prospettiva analitica da un punto di vista non settoriale, potrebbero generarsi contributi interessanti per la comunità videoludica, per gli studiosi del medium nonché per gli stessi critici che volessero fare del testo videoludico una espressione complessa pari ad altri artefatti culturali.

Si potrebbe immaginare che una delle difficoltà trasformatasi in consolidata ritrosia da parte di molti settori della critica non-videoludica a considerare i videogiochi “Arte” al pari di altre espressioni artistiche, non sia da ricercarsi nella natura del medium in sé, bensì nella considerazione storica che la stessa ha dei videogiochi, a partire dai “ pionieri “ che hanno scritto la storia iniziale del medium. Pong, Space Invaders, Pac-man… tali forme videoludiche offrivano rappresentazioni stilistiche ridotte all’osso, ognuna fortemente caratterizzata da un minimo comun denominatore : i propri evidenti minumum estetici, dal gameplay al coinvolgimento audiovisivo, e via dicendo.
Al contrario, gli artefatti del cinema, musica, pittura o letteratura ad esempio, non sono stati considerati da parte dei sistemi critici, seppur ne abbiano sofferto, come afflitti da limiti congeniti, nonostante siano stati investiti nel tempo da una evoluzione tecnologica nei supporti di registrazione, produzione, conservazione e quanto altro.
Di tali testi specifici vengono analizzati i contenuti, i contesti socio-politici nel quale sono inscritti nonché tanti altri diversi aspetti in relazioni fra loro.
Ma ciò che li ha sempre differenziati dagli artefatti videoludici è che essi sono sempre stati riconosciuti quali diretta e sacrosanta espressione dell’uomo/artista in un determinato punto del tempo e dello spazio, in virtù della quale espressione la componente tecnologica non é mai stata considerata limitante, bensì di supporto alla comunque libera visione umana in grado di esprimersi con gli strumenti a disposizione.


Il videogioco, in quanto prodotto totalmente mediato, filtrato, esplicato da un hardware tecnologicamente definito (leggi limitato), potrebbe essere idealmente considerato dalla comunità critica non videoludica quale medium riduttivo, riduzionista, limitante la libertà espressiva dell’uomo, dovendo questi adattarsi alle risorse tecnologiche disponibili ad esaudire la propria visione ideale.
Il problema non si risolve quindi nell’accettare i compromessi legati allo specifico artistico del medium videoludico, bensì attraverso una riflessione sullo stesso comparata ad altre espressioni artistiche compiute, le quali, de facto, non soffrono di tali disagi interpretativi.
In qualità di linguaggio puramente digitale, risultato di programmazione di un codice macchina, il videogioco é a tutt’oggi influenzato dall’hardware che lo supporta, dalla tecnologia che ha il potere di definirlo, nel tempo, addirittura ontologicamente.
Credo sia possibile azzardare l’ipotesi della ridefinizione ontologica del medium videoludico in quanto non vi è nulla a precludere la possibilità che in futuro la tecnologia, attraverso nuove interfacce di connessione uomo-macchina, mediante progressi in campo biomedico legati alla bio-cibernetica, potrà a tal punto stravolgere il modo come intendiamo oggi la “ludica video-interazione” da farci stabilire che le pratiche videoludiche passate, come vengono intese da noi oggi, non possano assolutamente essere definite “video-interazione” ludica. (eXistenZ di David Cronenberg – 1999 – ne è una stordente ipotesi).
Non a caso é sintomatico che dopo più di trent’anni di storia videoludica, con buona pace dei puristi del retrogaming, molti videogames del passato non vengano più giocati in quanto incapaci di intrattenere come un tempo, a causa del progresso tecnologico che ne ha sfiancato il potere di divertimento ludico rispetto a proposte più attuali.
In altri termini, la tecnologia in ambito videoludico ha l’immenso potere di ridefinire nel tempo il piacere di fruire degli elementi propri degli artefatti videoludici, causa trasformazioni/evoluzioni estetiche e strutturali all’interno delle opere ludiche.
Come in precedenza affermato, i limiti hardware dietro i videogiochi riducono le facoltà umane d’espressione, in quanto queste, a loro volta, vengono limitate, azzoppate, handicappate dagli inevitabili limiti congeniti della tecnologia che ne è alla base.
Ciò comporta l’idea che sino a quando il vecchio sarà rimpiazzato dal nuovo, vi sarà la diffusa, conscia/inconscia opinione critica che un prodotto videoludico non presenti solide fondamenta né una base certa dalla quale poter analizzare esteticamente il medium in modo paradigmatico, con il conseguente rischio di non poterlo considerare in grado di generare forme artistiche compiute come per altre forme espressive.
Limitando difatti le possibilità dell’uomo, il limite hardware costringe l’uomo a privarsi di una delle caratteristiche che lo rendono uomo/artista in quanto tale : la totale libertà di espressione della propria visione, ovvero di realizzazione della stessa. Per questo il medim videoludico potrebbe difficilmente essere accostato, dal sistema critico, ad altre espressioni artistiche umane.

Per quanto le influenze socio-culturali favoriscano la nascita di intelletti in determinati periodi spazio-temporali, nulla avrebbe vietato ad esempio ad un uomo quale Pablo Picasso, se fosse esistito cento anni prima, di dipingere un quadro cubista, potendo egli disporre della stessa personale, inalienabile visione appartenente a lui come uomo/artista Pablo Picasso, nonché degli stessi strumenti espressivi (tela, colori, pennelli) a disposizione degli artisti del novecento.
Così come nulla ci vieta di pensare che Pablo Picasso abbia invece anticipato i tempi, e che in realtà la sua pittura avrebbe dovuto generarsi solo cinquanta anni dopo, quando il contesto fisico e sociale sarebbe stato idealmente più favorevole.
Ciò che più conta in definitiva, è che Pablo Picasso avrebbe potuto strumentalmente realizzare la propria visione pittorico/stilistica, in quanto possibilitato a prescindere temporalmente.
La visione artistica di un uomo é solitamente quindi un elemento in grado di trascendere il tempo.

Nel 1970 la PlayStation non poteva essere tecnologicamente concepita, e le prime console da gioco ad esempio erano dotate di un hardware ultra-limitato, con gli sviluppatori costretti a conformarsi alle loro prestazioni.
Nonostante l’eccitazione per la speranza riposta nel futuro del progresso elettronico, non è tabù affermare che sin dall’inizio il bisogno dei game designer di espandere la propria libertà di visione in ambito videoludico ha dovuto sempre scontrarsi con la tecnologia.
E’ possibile supporre che sia stato proprio questo ad aver contribuito a seminare nel tempo, all’interno dei sistemi critici non strettamente interessati alla ludica video interazione, l’idea del videogioco quale medium stringente, soffocante, limitativo per la totale soddifazione artistica e la conseguente libertà autoriale dell’uomo.
Se oggi è possibile allontanarsi sempre più dalla vetusta concezione di “limite tecnologico” caratterizzante le macchine dei primi videogiochi, è pur leggittimo concedersi la libertà di presumere che all’alba di possibilità inedite e alla velocità con la quale il medium si sta evolvendo, ci si trovi in una scomoda posizione di definizione dello stesso, in quanto non è mai facile definire paradigmaticamente un medium in evoluzione, che pare denigrare il se stesso lasciatosi alle spalle ad ogni passo in avanti compiuto.
Per tale motivo viene più facilmente concessa e riconosciuta ai pionieri dei primi videogiochi l’abilità e l’abnegazione nel programmare macchine esigenti piuttosto che il riconoscimento artistico/istituzionale/paradigmatico delle proprie idee.
Da ciò ne conviene che se un quadro innovatore, precursore di un movimento artistico é capace di divenire un artefatto artistico paradigmatico, e di conseguenza valutato unanimemente secondo determinati criteri estetici, é perché l’opera e la visione pioneristica del genio, a prescindere dai suoi strumenti artistici a disposizione o inferenze socio culturali, é libera da vincoli di sorta, senza mediazione se non quella della sensibilità artistica del proprio autore : in altri termini, e ancora, la libertà di visione dell’uomo dovrebbe sempre trascendere il tempo essendone slegato, permettendo in tal modo il libero generarsi di uno specifico paradigma critico convenzionale, non timoroso di stabilirsi secondo stabili coordinate, sicure.
Di conseguenza, e in tutta naturalezza, l’opera artistica viene considerata un’espressione artistica compiuta.

Nel campo videoludico, durante le GDC (Game Developer Conference), è raro non sentire un game designer lamentarsi della difficoltà di approccio delle nuove tecnologie, dei tool di sviluppo per i nuovi sistemi o dei limiti suggeriti dalle caratteristiche tecniche dell’hardware col quale dovrà confrontarsi/attuare la propria visione/esprimersi. A tutto questo vanno ad aggiungersi dichiarate insofferenze verso le software house, vere e proprie realtà corporative con tutto il loro carico di analisi di mercato e strategie di marketing, visione economica di produzione e relativa pressione sui team di sviluppo.
Come se non bastasse, le nuove tecnologie di visione legate all’intrattenimento videoludico, dai televisori ad alta definizione sino ai touch sensitive screen del Nintendo DS ad esempio, non fanno altro che ridisegnare i supporti, le “tele” atte alla visione elettronica, nonché le metodologie interattive mediante le quali i game designer si sono fino a poco tempo fa espressi.
Tale processo evolutivo, schiaffeggiando drasticamente le passate tecnologie visive (la tecnologia CRT - Cathodic Ray Tube, i vecchi Televisori a tubi catodici), stabilisce ormai che chi non possederà l’Alta definizione sarà tagliato fuori dal godere appieno delle nuove console Sony e Microsoft, a prescindere dalla propria competenza in ambito videoludico.
Difficilmente invece un quadro, una canzone, una scultura o un film subiscono nel tempo un rinnovo degli strumenti di fruizione così drasticamente correlati al progresso tecnologico. Inoltre, dove un pittore ad esempio può esprimersi indifferentemente su muro/tela/legno, facendo di volta in volta uno specifico di genere a seconda dei differenti supporti per la sua arte (con la critica pronta ad analizzarne indifferentemente il segno, a prescindere dal supporto sul quale è registrato), mutare i supporti elettronici visivi in campo videoludico vuol dire tracciare violentemente il profilo di una nuova estetica visuale, impossibilitando inoltre il dietro-front ideologico in quanto sarebbe la tecnologia dello stesso hardware, anti conservatore per sua natura (tecnologica) a non permetterlo.
Produrrebbe mai la Sony una Playstation 2.5, visibile su comuni televisori CRT, quando sul mercato é già disponibile la 3 per l’Alta definizione ?
Il segno lasciato da un pittore è invece un indice artistico non differenziale, capace di oscillare secondo sensibilità, esigenza e bisogni dell’artista, ma libero di essere convenzionalmente valutato dalla critica a prescindere dai supporti visivi sui quali l’artista decide di attuarlo.
E’ sintomatico che difficilmente Sid Maier avvertirebbe nel 2006 il prurito di programmare una versione ridotta all’osso di Civilization su Atari 2600, in quanto la sensibilità, la visione estetica e l’esigenza artistica dei game designer è mutata secondo ciò che la tecnologia ha reso possibile.

Tornando a trattare di critica, c’è da dire che i settori specializzati in critica videoludica non hanno difficoltà ad affermare, in sede di analisi di un dato videogioco, il relativo valore alla luce di come idee, gameplay, grafica e sonoro siano stati implementati in armonia con l’avanguardia tecnologica hardware che ne è alla base. Difficilmente il godimento dato dalla fruizione di ambienti virtuali mossi da motori grafici all’ultimo grido risulta un elemento criticamente sottovalutato.
Ma dovendo esprimere opinioni sui videogiochi passati dello stesso genere, ad esempio Gran Turismo 2 (PlayStation) e Gran Turismo 4 (Playstation 2), consigliando l’utente su di una scelta d’acquisto, non lesinerebbero nell’avanzare il fatto che GT2 (fig.1) risulti vetusto, sorpassato sotto tutti gli aspetti rispetto a GT4 (fig 2), pur trattandosi entrambi di artefatti dello stesso genere di appartenenza : videogiochi.


(Fig. 1) Gran Turismo 2 – Polyphony Digital – 1999
(Fig.2) Gran Turismo 4 – Polyphony Digital - 2005

Pur essendo entrambi artefatti creati per intrattenere/divertire/simulare la realtà, consigliare di giocare GranTurimo 2 piuttosto che il 4 è impensabile, poiché GT 4 offre/diverte/simula/coinvolge/esalta maggiormente, evolvendo la visione iniziata con il primo Gran Turismo. In definitiva, ad un prodotto tecnologicamente avanzato viene spesso insindacabilmente riconosciuta una preferenza, un valore maggiore rispetto alle offerte precedenti.
E si tratta di giudizi di quella stessa critica di settore che dovrebbe stabilire paradigmi critici partendo dai videogiochi realizzati.
A questo punto è possibile chiedersi : muta forse il complessivo giudizio attuale su di un gioco tecnologicamente datato, sapendo che il game designer, se non fosse stato limitato dalle risorse hardware disponibili avrebbe certamente creato qualcosa di migliore?
La risposta è “Assolutamente no”.
Il Producer/Director Kazunori Yamauchi di Polyphony Digital, non sente forse d’essersi avvicinato maggiormante alla sua visione videoludica originaria di Gran Turismo grazie a Playstation 2 piuttosto che la sua sorella anziana? E se avesse potuto, sarebbe riuscito a realizzarla prima?
Assolutamente si.
Gran Turismo 2, agli occhi dei videogiocatori di oggi, rimane un gioco graficamente limitato, superato dal punto di vista simulativo, capace di far sorridere i videogiocatori di oggi non senza una certa ironia nel vederlo “girare” su di una piattaforma obsoleta, dimentichi del tempo nel quale si era creduto fosse il massimo paradigma di simulazione di racing possibile.
Di contro, nessun critico sconsiglierebbe di fruire della Natura morta con vaso di zenzero I di Piet Mondrian – del 1911 (fig.3), solo perché lo stesso autore ha prodotto una Natura morta con vaso di zenzero II del 1912 (fig.4).


(fig.3) – Natura morta con vaso di zenzero I – Piet Mondrian 1911
(fig.4) – Natura morta con vaso di zenzero II - Piet Mondrian 1912

Seppure la seconda produzione dell’artista olandese sembri più povera, più recente cronologicamente ma meno immersiva rispetto allo pseudo-realismo della prima, essa ha potuto godere di una propria autonomia intepretativa, svincolata dalle influenze della convivenza con il segno autoriale grafico antecedente.
Normalmente, gli artefatti artistici non videoludici di uno stesso genere, atti a divenire oggetto di critica, convivono assieme nel tempo senza calpestarsi i piedi vicendevolmente.
Se è vero che Playstation 2 può far “girare” Gran Turismo 2 e 4, e che quindi anche questi artefatti possono convivere assieme nel tempo (leggasi giocati) ed appartengono al medesimo genere (racing simulativo), difficilmente possedendo entrambi i titoli si tende a giocare con il più datato.
Artefatti artistici quali pittura, musica, scrittura e architettura, visti sotto il profilo critico, convivono assieme senza problemi, e la critica li valuta e ne consiglia la fruizione per il godimento che questi procurano.
Se i critici videoludici invece difficilmente consiglierebbero di videointeragire con un prodotto datato rispetto ad uno temporalmente più vicino al momento critico attuale, è perché lo specifico dell’interattività, delle immagini in movimento, dell’intelligenza artificiale o dell’audio nei videogiochi, diviene più coinvolgente con il migliorare della tecnologia che ne è alla base.
In altri termini, la tecnologia infrange lo status quo sul quale potrebbe definitivamente stabilirsi un’espressione artistica autoriale compiuta, con relativo disagio critico legato allo sforzo teso alla ricerca di principi estetici paradigmatici.

Tutto ciò comporta che le opere videoludiche nate in diversi punti temporali dell’evoluzione tecnologica, tendono a primeggiare/sopprimersi secondo una selezione naturale il cui elemento selettivo viene inoculato dallo stesso progresso tecnologico, costringendo a proiettare nel tempo, sempre più in là, il definirsi di una data opera artistica compiuta, a scapito di eventuali principi estetici paradigmatici di analisi critica.
Come possono infatti stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati pensando alle opere videoludiche che tentano di svilupparsi continuamente, cercando di rincorrere una propria stabilità dei propri specifici come ad esempio estetica digitale e interattività ? E’ legittimo quindi supporre che gli artefatti di un medium in continua evoluzione sappiano far storcere il naso al sistema critico non videoludico, al pensiero di dover istituire principi estetici paradigmatici basati sulla palese verità che il medium ludico video-interattivo non ha alcun pudore ad assimilare, digerire ed infine evacuare se stesso nel tempo?

Si torna quindi al punto iniziale : Potrebbero mai stabilirsi principi estetici paradigmatici adeguati quando il progresso tecnologico tende ad evolvere i paradigmi autoriali sui quali potrebbe definirsi una data espressione artistica compiuta ?

La risposta ovvia potrebbe essere soltanto una, ed é naturalmente utopistica : solo quando la tecnologia applicata in ambito videoludico deciderà di arrestarsi, consolidandosi per sempre.
Sarà forse Playstation 10? X-Box Infinity o Nintendo ForEver?
Qualunque essa potrebbe essere, dovrà risultare assimilabile ad una mente, ad un intelletto umano virtualmente (in entrambe le accezioni) scevro da inibizioni tecno-dipendenti, da suscitare nel game designer l’idea, o l’illusione, d’aver specchiato totalmente, in un dato artefatto, la propria visione senza limiti di sorta.
Ciò che è possibile fantasticare è che con il progressivo aumento della potenza computazionale, disponendo in potenza di risorse di calcolo virtualmente infinite, di tool di sviluppo incontestabili nonché di un hardware non umanamente/totalmente sfruttabile/esauribile, potrebbero crearsi le premesse per una base espressiva completa, totale, libera, scevra da compromessi riguardo la visione autoriale e la sua relativa implementazione in ambito ludo-interattivo.
Accostando un tale mostruoso hardware alle infinite possibilità espressive della mente umana, finalmente liberata dal gioco del limite tecnologico, ciò permetterebbe, sempre utopisticamente, a qualsiasi sistema critico di stabilire una tassonomia più sicura, stabile, istituzionalizzata, annoverando tranquillamente i videogiochi quali nuovi oggetti d’arte con i propri specifici stabiliti, per i quali l’inesistenza di limiti in grado di soddisfare qualsiasi visione umana risulterà un fattore base sulle quali instaurare tassonomie artistiche video-ludiche più sicure.

A quel punto probabilmente si ricomincerà a rivalutare, con rinnovata attenzione, il genio di molte passate opere videoludiche, ma non come è avvenuto per tanti quadri, musica o libri pionieristici che al loro tempo sono stati ripugnati dal sistema critico data l’avanguardia visionaria che essi rappresentavano, bensì come tentativi sperimentali in ambito elettronico di pseudo artisti tesi ad approcciare con le risorse disponibili per ottenere un risultato interattivo compiuto, ma dietro il quale la visione autoriale è risultata sempre azzoppata, limitata.
Basti pensare che ciò che viene ben riaccolto e osannato dalla critica dopo anni di processi, di stroncatura e censura, come avviene appunto per quadri, libri o cinema, non accade invece per i videogiochi. A prescindere da quanto i critici di professione siano in grado di applicare “principi paradigmatici” nel valutare artisticamente un artefatto artistico, nel primo caso la visione del fruitore, attualizzata nel proprio contesto socio-politico, diviene “pronta” nell’inglobare, assimilare la visione preconizzatrice dell’autore, senza che questo venga minimamente sfiorato da una delegittimazione nella sua libertà visionaria.
I videogiochi recenti devono necessariamente essere fruiti al momento tecnologico attuale, performati da piattaforme presenti nel mercato, dietro un marketing asfissiante ad hoc, e facendo proprio dell’invasività del progresso tecnologico un motivo di distinzione, celando molto spesso, dietro tale progresso, la tendenza al mero aggiornamento di un prodotto secondo i gusti dei possessori delle piattaforme, (I videogiochi sono servizi – possiedono un carattere artistico – sono un medium eccessivamente mainstream… Kojima) – riproponendo spesso visioni artistiche proposte solo pochi mesi prima, offrendo sì al fruitore un incremento qualitativo da assimilare, ma spesso solo puramente sotto il profilo estetico.

Sino a quando l’arte video-interattiva dovrà esprimersi facendo i conti con i progressi della tekné, la scienza tecnologica (ignorando che questa parola esprimeva un tempo una prassi affine all’arte) senza trascenderla come invece la mente umana può artisticamente attuare su di un muro anche con una pezzetto di selce appuntita, il problema potrebbe continuare a sussistere.
L’aggiornamento tecnologico rende esteticamente vetusto ogni harware/tavolozza di possibilità precedenti, pressando affinché siano spostati i principi estetici paradigmatici autoriali sempre un po’ più in là, con conseguente necessità di ridefinizione del medium, lasciando scoprire di volta in volta quanto asfissiata dalle risorse disponibili sia la visione del game designer/artista della precedente generazione.
Dovrebbe essere lo stesso game-designer ad affermare dopo l’uscita del suo gioco “Ecco, sono soddisfatto! Era esattamente quello che volevo realizzare, esteticamente e strutturalmente!“, infischiandosene quindi di quali possano essere al momento i giudizi estetici paradigmatici in voga o quanto la propria sia una espressione artistica compiuta.

Ma è mai esistito un game-designer che, in cuor suo, non si sia rammaricato per il fatto che, se solo avesse potuto aggiungere quel TOT in più avrebbe tentato di spostare la propria visione un po’ più in là ?


Luigi "BraunLuis" Marrone